La Mia Vita di Lotta Contro il Glioblastoma: una Storia di Speranza

La Mia Vita di Lotta Contro il Glioblastoma: una Storia di Speranza

Ricevo un email da Fabrizio che mi racconta la sua storia e la sua voglia di dare speranza e coraggio a quelli che percorrono il suo stesso cammino. Decido di pubblicarla subito per la forza del suo messaggio. Di seguito la versione integrale della storia di Fabrizio, scritta da lui stesso …

Mi chiamo Fabrizio, ho 44 anni e il 19 maggio 2023 la mia vita ha preso una piega inaspettata. Quel giorno, all’Ospedale di Circolo di Varese, un medico mi ha visitato e — con parole ferme ma cariche di urgenza — mi ha detto: “Devi fermarti immediatamente in Pronto Soccorso, servono esami urgenti.” Non potevo immaginare allora che quel suo intuito mi avrebbe salvato la vita.

In Pronto Soccorso, dopo la TAC, il neurochirurgo di turno mi ha guardato negli occhi e ha pronunciato la frase che ha cambiato tutto: “C’è una massa nel cervello, non posso mandarti a casa.” Quelle parole mi hanno colpito come un fulmine, ma il suo sorriso — piccolo gesto di umanità — ha alleggerito per un attimo quel peso enorme.

Dodici giorni dopo, il 30 maggio, sono stato operato da una dottoressa straordinaria il cui sorriso mi ha trasmesso sicurezza e serenità. Dopo l’intervento è arrivata la prima conferma: un glioma di alto grado. Verso fine giugno l’esame istologico ha rivelato la diagnosi definitiva: glioblastoma di IV grado. Eppure, a 22 mesi di distanza, sono ancora qui — cammino, vivo, combatto.

Tutto è iniziato il 10 aprile con un formicolio che partiva dalle dita e saliva al braccio. Pensavo fosse un problema cervicale: massaggi, visita dal medico di base, risonanza magnetica… fino all’appuntamento dal neurochirurgo per delle piccole ernie. Sembrava la spiegazione giusta, finché il 18 maggio, in auto, il formicolio si è esteso al volto. Ho chiamato mio padre per prenotarmi urgentemente una visita a Varese.

Il 19 maggio, alle 17:45, ero in ospedale con mia moglie. Anche se inizialmente ho minimizzato, il medico ha insistito e ha contattato il mio medico di base, convincendomi a recarmi in Pronto Soccorso. Quel campanello d’allarme si è rivelato provvidenziale.

Dopo l’operazione è iniziato un percorso impegnativo di radioterapia e chemioterapia con temozolomide. È stata una sfida dura, ma necessaria — resa ancora più reale dalla diagnosi definitiva di fine giugno.

Oggi sto bene: non ho deficit neurologici e continuo a essere attivo. Lavoro, guido, vado in moto e frequento la palestra. Non ce l’avrei fatta senza gli “angeli in camice” che hanno messo il cuore in ogni gesto.

Il medico che mi ha visitato — non solo un professionista, ma un essere umano — passava ogni volta a trovarmi, facendomi sentire visto come persona, non solo come paziente. La dottoressa che mi ha operato resta il mio faro di speranza, sempre pronta a sostenere il mio percorso. Le radioterapiste mi accoglievano ogni giorno con gentilezza, trasformando un trattamento pesante in momenti di luce. E il personale di Oncologia — infermiere, dottoresse e accoglienza — mi ha offerto un’umanità che scalda l’anima.

Il reparto di Neurochirurgia, dagli infermieri agli OSS, ha dimostrato una dedizione che va oltre il dovere: i loro sorrisi, le battute e le parole mi hanno aiutato a uscire da quel tunnel.

La mia famiglia non mi ha mai abbandonato. I miei genitori mi hanno trasmesso una forza silenziosa ma potente; mia moglie è stata la mia roccia, il mio sostegno nei momenti più difficili; mio figlio — allora sedicenne — mi ha dato la motivazione per non arrendermi e l’insegnamento che, anche se arriverà la sconfitta, non potrò rimproverarmi di non aver lottato fino in fondo.

Ho conosciuto anche Nicolò, una persona speciale che mi ha insegnato a non arrendermi mai: nei giorni più bui, il suo esempio mi ha spinto a cercare la bellezza che resiste, un sorriso, un tramonto, un giorno in più da vivere.

E poi ci sono gli amici — lontani ma vicini col cuore — che, con messaggi e telefonate, hanno fatto sentire il loro affetto come abbracci silenziosi. L’affetto vero non ha bisogno di presenza fisica per essere reale.

Questa non è solo una storia di medicina: è la storia di umanità, di persone che mi hanno dato forza, e della mia volontà di non arrendermi. Condivido la mia esperienza nella speranza di accendere una luce per chi, come me, sta combattendo una battaglia che sembra impossibile.