Sara Racconta la Storia di suo papà Vincenzo

Quando penso a mio padre, penso subito alla bontà d’animo, alla genuinità, alla persona più leale e vera che io abbia mai conosciuto. A scrivere sono io, Sara, 23 anni. Mio padre, Vincenzo, per gli amici Enzino, aveva 51 anni. Pieno di vita. Di giorno lavorava in un garage qui a Roma, di notte era facchino in un albergo. Durante il poco tempo libero che gli restava, si dedicava alla sua più grande passione: la musica. Faceva il dj, ma questa passione era nata già intorno all’età di 18 anni, quando mise per la prima volta i famosi vinili alla festa di compleanno di mia madre. Questa era a tutti gli effetti il motore che lo spingeva ad andare avanti, sempre con l’entusiasmo di un bimbo. All’età di 13/14 anni ero felice quando mi chiedeva di accompagnarlo alle feste dove avrebbe suonato; lo aiutavo a portare l’attrezzatura, mi faceva sentire utile in qualche modo, pur essendo piccola all’epoca. Nei momenti in cui tornava dal lavoro e poteva riposarsi, preferiva mettersi le sue cuffie e creare la compilation di brani adatti alla prossima festa/serata. Lui aveva tutte le cose necessarie: una console, i cd, le chiavette USB, i vari fili che puntualmente erano tutti aggrovigliati nella sacca! Una volta ha proposto anche a me di provare a fare un mixaggio, e disse che “avevo orecchio” per poterlo fare bene! Ma per me quello era un momento da condividere con lui, non un modo per imparare il lavoro stesso. Mia sorella, invece, ha acquisito da lui questa grande passione per la musica, divenendo a sua volta una Dj.
Questa vuole essere una premessa per far capire che tipo di persona era mio padre, una persona buona e piena di vita. Nei momenti in cui non era a lavoro era un po’ sottotono per la stanchezza, ma non vi si faceva mai travolgere. Era una persona a momenti chiusa e riservata, ma sapeva a modo suo farti capire che ti voleva bene. Mio padre non era una persona che dimostrava con grandi gesti il bene e l’affetto, aveva un modo tutto suo di farlo, un po’ come me. Essendo molto simili caratterialmente, spesso ci scontravamo, ma dopo dieci minuti era tutto come prima.

Siamo a maggio del 2015 e lui inizia a non camminare bene, aveva un’andatura zoppa, un dolore improvviso alla gamba. Per vari motivi, non riesce ad andare dal dottore per farsi visitare. 
Circa un mese dopo, il 10 giugno del 2015, io ho gli esami di ammissione all’anno scolastico successivo. Mio padre decide di accompagnarci, ma lungo il tragitto non riesce a frenare in tempo e tampona la macchina davanti alla nostra. In macchina eravamo io, mia madre e mio padre. Io e mia madre ci siamo preoccupate a tal punto da consigliargli vivamente di andare presto dal suo medico di base. 
Il medico gli dice di stare a riposo per una settimana, di prendere un antinfiammatorio e di prenotare una visita ortopedica. In quella occasione, mio padre comunica al medico di avere un formicolio alla parte destra del volto e a quel punto il medico gli consiglia di farsi visitare da un neurologo. Mio padre prenota la visita per il 19 giugno, un venerdì. La mattina di quel venerdì ero a fare volantinaggio in zona Eur, vicino al laghetto, mio padre invece era a casa con mia madre. Lei mi racconta che era scesa sotto casa al CAF per sbrigare delle pratiche ma aveva bisogno del numero della carta che però aveva dimenticato a casa. Chiama mio padre per farsi dettare il numero, ma lui non riesce a pronunciare i numeri. Mio padre inizia ad avere i primi segni di confusione, di disfonia, di disorientamento. Decide frettolosamente di venirmi a prendere all’Eur, con la macchina. Conosceva molto bene le strade di Roma. Alle 13 finisco di lavorare, erano le 13:20 e non lo vedo arrivare. Era uscito da casa già da un po’ ormai. Preoccupata lo chiamo al telefono. Mi risponde dicendo con parole confuse che non riesce a trovare la strada. Io sono davvero molto preoccupata e gli consiglio di attivare il navigatore, ma mi dice di non riuscire ad utilizzarlo, non si ricordava come si usasse. Dopo una decina di minuti mi chiama e mi dice di essere arrivato; lo vedo, in lontananza. Sono sollevata. Era lì sano e salvo. Ho temuto per la sua incolumità. Mio padre non stava bene. Nel viaggio di ritorno cerco di capire cosa gli succede, cerco di parlarci, ma lui accenna qualche parola confusa che cerco di decifrare. Ad un certo punto muove solo la testa per dire “sì” o “no” in risposta alle mie domande. Inizia ad avere allucinazioni, vede persone che attraversano la strada quando in realtà non c’è nessuno. Per fortuna arriviamo a casa. 

Il pomeriggio, io, mia sorella e mia madre lo accompagniamo alla visita neurologica. La dottoressa, dopo svariati test psicometrici decide di inviarlo al Dipartimento di Emergenza e Accettazione con richiesta di ulteriori accertamenti diagnostici da effettuare con urgenza. Ci dirigiamo verso il pronto soccorso del Policlinico Umberto I di Roma. Dopo una lunga attesa, gli viene fatta una TAC, dalla quale non è merge nulla. La mattina seguente, i medici decidono di fare una risonanza magnetica. Il mondo ci crolla addosso. La diagnosi è glioblastoma multiforme. Prima di allora non sapevo nemmeno cosa fosse, non sapevo neanche l’esistenza di questo mostro. Un mostro che ha portato via mio padre nel giro di un mese. Dal momento della diagnosi è stato un incubo per tutta la nostra famiglia, momenti di confusione alternati a momenti di lucidità. Nell’attesa della TAC, ricordo di aver guardato mio papà negli occhi e di avergli detto “ti voglio bene”. Sembrerà banale, ma all’epoca ero adolescente, e si sa, in quella fase turbolenta della vita dà fastidio anche solo averli troppo vicino i propri genitori. Ma io avevo capito che non avrei più visto il mio vero papà, quello energico, entusiasta della vita, leggero. E allora l’ho fatto. Durante il ricovero, mia madre è stata sempre al suo fianco, come anche mia sorella, mia nonna Maria, le sorelle di mio padre, le mie care zie, sono sempre state al suo capezzale per supportarlo in quel momento difficile. Mia nonna Angela, la mamma di mio padre, era quasi sempre li. Valanghe di amici, di colleghi, di persone che accorrevano per portargli un saluto. La prima settimana di ricovero fu un progressivo diminuire delle sue funzioni vitali. Ricordo di averlo imboccato più volte, di averlo aiutato a mangiare un muffin al cioccolato che a malapena aveva assaggiato. Ascoltavamo insieme la musica, la sua più grande donatrice di energia. 

La diagnosi era chiara ai medici, tanto da decidere di non fare la biopsia per evitare di peggiorare la situazione vista la delicata posizione del tumore che era localizzato sul ponte, nel tronco encefalico. Ci avevano proposto di fare una settimana di mannitolo e cortisone per ridurre l’edema cerebrale, per poi cominciare la chemioterapia. Ma non è stato possibile poiché mio padre ha avuto un progressivo peggioramento delle funzioni vitali: nell’arco di due settimane circa ha perso l’uso della parola, il movimento e la deglutizione. Tutta la famiglia si è mobilitata per avere pareri da svariati neuro-oncologi, neurologi, neurochirurghi esperti. Ma nulla da fare, il tempo passava e noi non potevamo fare nulla per aiutarlo, se non alleviare il suo dolore.

È rimasto per altri 16 giorni ricoverato al Policlinico Umberto I dopodiché, l’8 luglio, è stato trasferito in una casa di cura per malati terminali, dove gli sono state somministrate cure palliative. Per me tutto si è fermato venerdì 17 luglio 2015 alle 19:00 circa. Io quel giorno non ero andata a trovarlo e lui ha deciso di volare via proprio nel momento in cui io non ero presente. Per molto tempo questo fatto mi ha recato sensi di colpa, ma ad oggi mi piace pensare che l’abbia fatto per evitarmi un’ulteriore sofferenza nel vederlo smettere di respirare. 
Ho deciso di rendere pubblica la storia di mio padre Vincenzo come testimonianza della splendida persona che era e che, per me, ancora è; perché, “Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta”!